Ritorno verso casa, a piedi, attraversando piccole vie
nell’aria invernale. Il filo dei pensieri si dipana lungo le pietre del
selciato; in realtà non penso ma mi lascio pensare. Mi abbandono spesso a
questo falso concentrarmi, appaio assorta ma spengo con gentilezza il corso dei
miei pensieri. Riesco così a non sentire la fatica del cammino risvegliandomi
all’improvviso di fronte al portone di casa, quasi sorpresa nel ritrovare un
luogo amico dopo aver cancellato il percorso fatto. Già nell’androne delle
scale mi accoglie odore di famiglia, non certo il sentore di cavolo bollito
che la mamma con vena di inguaribile snobismo definiva “di portineria”, ma il
calore di scalpiccìo, di cappotti appena usciti dall’armadio, di profumi appena
spruzzati che rimangono in aria. Salgo le scale e passo dopo passo conto i
gradini, piccola ossessione che ripeto ogni volta, quasi sperando che un giorno
aumentino all’improvviso. Entro in casa, il fruscìo del computer di mio figlio
adolescente, che schivo accetta il mio bacio di rientro, la corsa di mia figlia
e l’abbraccio. Tuffo il viso nell’incavo del collo ed ecco il suo profumo, la
sua infanzia mi avvolge e mi commuove. Gli occhi di mio marito mi sorridono
dietro il velo della stanchezza della giornata. I grandi amori della mia vita. Vorrei
che non esistesse altro. L’immagine della famiglia perfetta si infrange al
primo squillo del telefono; la quotidianità mi assedia con i resoconti delle
banalità necessarie al corso dell’esistenza. Per quanto faccia e tenti non
riesco a lasciare i mostri per strada, sul marciapiede umido del freddo invernale. Abbasso gli occhi stirando le labbra nel solito sorriso ed entro in
cucina.
A casa.
bello! intimo, essenziale. Un bandolo di emozioni.
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